Dress code alla Camera, la resistenza della comodità

Di questi tempi uno cerca segni di speranza dove li trova, e se non li trova si sforza di visualizzarli. Sarà per questo che nello stop della Camera al nuovo dress-code proposto da Fratelli d’Italia che ai deputati imponeva la cravatta e proibiva le scarpe da tennis io vedo un piccolo, minuscolo argine al ritorno del fascismo. «Noi siamo contro la vita comoda», ripeteva Mussolini a ogni piè sospinto (piè, ovviamente, calzato di stivalone): la comodità era considerata borghese, peggio ancora, anglosassone, come pure i cinque pasti al giorno, le poltrone, i materassi a molle e il tè delle cinque. Nella sua smania di rigenerare il popolo italiano attraverso la scomodità militaresca, il regime non ha avuto mezze misure, imponendo a poco a poco prima il razionamento alimentare e poi la fame, la rinuncia a scarpe e vestiti decenti e poi attirando sulla penisola una pioggia di bombe (ironicamente, angloamericane) che hanno privato la gente non solo di poltrone e materassi, ma anche di un tetto sulla testa. Un trattamento d’urto che, a quanto pare, non ci ha trasformato in una nazione di spartani allergici al comfort: anzi, dal Dopoguerra in poi tutta la nostra storia è stata un’inesausta ricerca della comodità in ogni aspetto della vita. Anche nell’abbigliamento, soprattutto negli ultimi 30 anni: proprio dai nostri ex nemici americani abbiamo appreso la lezione dello shabby-chic, del look off-duty supergriffato, delle sneakers ultratecnologiche e costosissime che fanno status più di qualunque Oxford o Derby di cuoio pregiato lavorata artigianalmente.

Dress code alla Camera, la resistenza della comodità
Annamaria bernini in jean son Maurizio Gasparri (Imagoeconomica).

Anche nella rivoluzione della comodità gli uomini hanno battuto le donne

In questa rivoluzione della comodità, gli uomini hanno battuto le donne, ancora più disposte ad assoggettarsi, almeno in occasioni formali o a fini di rimorchio, all’instabilità e allo strozzamento di dita delle scarpe col tacco, alle gonne strette e ai bustier. I maschi di ogni età ormai vanno in jeans e scarpe da tennis anche a matrimoni e funerali e si sentono conculcati se fra maggio e ottobre ogni tanto devono sostituire i bermuda con i pantaloni lunghi. Se d’estate non portano le ciabatte o i sandali è a causa di un senso del pudore che soprattutto fra gli uomini è stranamente concentrato sui piedi, che si preferiscono ben coperti – da sneakers o al massimo da espadrillas – a meno che non si sia al mare o in piscina. Come mai tanti uomini occidentali (e anche qualche donna, io ne conosco) si vergognino di mostrare i piedi, a se stessi e al pubblico, e non concedano a queste eroiche, pazienti e misconosciute estremità almeno qualche mese di respiro all’aria aperta, per me resta un mistero. Senza scomodare Freud e la teoria del piede fallico (gli uomini avrebbero paura degli inconsci pensieri omosessuali suggeriti dalla visione dei propri piedi, e semmai preferiscono spostarli sui piedi femminili), mi limito a prendere atto che ognuno trova offensive e bisognose di occultamento o di protezione parti del corpo che ad altri sembrano totalmente innocenti e sufficientemente robuste: popolo che vai, paranoia che trovi. Se da noi «non sta bene» mostrare i piedi, a meno che non si sia frati carmelitani, possono esserci altri motivi. Il più nobile è esorcizzare un atavico fantasma di miseria, risalente all’epoca in cui solo i poveri andavano scalzi o indossavano zoccoli per la maggior parte dell’anno. L’altro è la riluttanza maschile a doversi prendere cura dei propri piedi e sottoporsi a regolare pedicure per dare loro un aspetto decente. Molto più pratico occultare tutto sequestrando il povero piede in calzino e sneaker, a macerarsi nel proprio sudore con 40 gradi all’ombra, mentre il resto del corpo è vestito solo di bermuda e tatuaggi.

Dress code alla Camera, la resistenza della comodità
Il presidente della Camera Lorenzo Fontana (Imagoeconomica).

Per la cravatta obbligatoria c’è tempo

Ma torniamo al fallito blitz anti-casual tentato da un lord Brummel italofraterno di nome Salvatore Caiata, nel cui fornito guardaroba troviamo diverse casacche cambiate nel corso degli anni, dal Popolo delle Libertà al M5s. In nome del dovere di ogni parlamentare si rappresentare la tradizione italiana anche nello stile e nel look, l’odg di Caiata metteva al bando a sneakers e magliette sia alla Camera che al Senato e introduceva l’obbligo della cravatta, già richiesta ai senatori, anche per i deputati. Prescrizione, anche questa, male accolta e alla fine sabotata, come succede sempre quando i parlamentari devono votare quando si tratta di stringere qualcosa intorno al loro collo e non al nostro. Ma, onestamente, in politica ci sono troppi segni di ritorno al passato per non tenersi stretta almeno la possibilità di riposare l’occhio almeno su un deputato grillino descamisado e descravatado o su un peone che molleggia in sneakers lungo il Transatlantico stile Principe di Bel Air. Un momento, però: non è passato nemmeno il «vieni come sei». Nell’odg approvato sono saltati, almeno per il momento i riferimenti a scarpe e cravatte, ma il compito di valutare l’appropriatezza e la decorosità dell’abbigliamento dei deputati è stato affidato ai questori, a mo’ di buttafuori da discoteca chic, e all’ufficio della presidenza, attualmente ricoperto dal teocon Fontana. Riuscirà a entrare a Montecitorio chi non indossa una tunica bianca con una grande croce greca sul petto?

Powered by WordPress and MasterTemplate